Siamo il secondo produttore al mondo, con 70mila ettari di superficie coltivata, ma se a Nord avanza la raccolta automatizzata, al Sud c’è ancora il caporalato. Le testimonianze del bracciante sopravvissuto a una strage e di un autotrasportatore costretto a fare i conti con i clan.
Un fazzoletto di terra attorno a un fiume. Questo è il Gambia. L’ex raccoglitore di pomodori Alagie Saho, 34 anni, un tempo viveva laggiù. E mostra il suo Paese allargando tra indice e pollice la mappa del cellulare. «Anche da noi si coltivano pomodori. Ma crescono nell’orto, se ne occupano le donne. A Foggia era tutta un’altra cosa». Il 6 agosto dell’anno scorso Alagie era su un van stracarico di braccianti, 8 posti a sedere e 14 a bordo, che viaggiava sulla Statale 16 verso Lesina. Lui dormiva nel portabagagli, esausto dopo una giornata di lavoro nei campi. Quando ha aperto gli occhi, si è trovato schiacciato tra il portellone e lo schienale, nel furgoncino ribaltato dopo aver sbattuto contro un tir. Dei 14 passeggeri sono morti in 12: braccianti del Marocco, della Nigeria, del Gambia, del Ghana, del Senegal, del Mali e l’autista bulgaro. Pochi giorni prima, in un altro incidente ad Ascoli Satriano, sempre nel foggiano, altri quattro operai stranieri. erano morti stritolati in uno scontro tra camion e furgone. «Li conoscevo tutti quei ragazzi, alcuni erano venuti con me da Rimini», ricorda il bracciante gambiano. «Quel giorno di agosto avevo riempito sette cassoni di pomodori. Ho guadagnato 20 euro e perso 12 amici».
Il settore
L’antenato dei pomodori era il tomatl, un piccolo ortaggio selvatico dell’America Latina conosciuto dagli Aztechi già migliaia di anni prima dell’arrivo dei conquistatori. Poi furono gli spagnoli a portarlo in Europa e in Italia. Il successo non fu velocissimo: a metà del Cinquecento il pomodoro era considerato ortaggio afrodisiaco e pianta ornamentale. Poi, dalla fine del Settecento, la coltivazione a scopo alimentare ebbe un forte impulso. Si inventò la passata, la conservazione in barattoli e latte. Fino a diventare, con le sue oltre cinquemila varietà, tutte derivate dall’antico tomatl, il simbolo della cucina mediterranea. Oggi in Italia, secondo produttore mondiale dopo la California, si coltivano ogni anno 5 milioni di tonnellate di pomodoro, la metà dell’intero volume europeo e il 14 per cento di quello mondiale. Per una superficie di 70 mila ettari. E si stima che ogni italiano consumi annualmente quasi 65 chili di pomodori, un terzo in forma di prodotto trasformato (passate, sughi, conserve). Ma se nei distretti settentrionali — concentrati tra Emilia Romagna e Lombardia, dove dalla fine dell’Ottocento si è sviluppata la coltivazione del pomodoro da industria — la raccolta è stata quasi integralmente automatizzata, al Sud, e in particolare in Capitanata (l’antico distretto che corrisponde all’attuale provincia di Foggia), gli appezzamenti delle circa 3.500 aziende locali sono più piccoli e meno adatti alla meccanizzazione. Ed è qui, dunque, dove d’estate si superano i 40 gradi, che sopravvivono fenomeni di caporalato e si insinuano i casi più gravi di sfruttamento della manodopera. «Secondo le nostre stime — spiega Fabio Ciconte, direttore di Terra! — la raccolta manuale è il 15% del totale».
Il caporalato
Nonostante la nuova legge del 2016 abbia inasprito le pene, perseguendo anche i titolari delle aziende agricole, la figura del caporale, piombata nell’immaginario collettivo nel 1990 con Pummarò, il primo film da regista di Michele Placido (nato proprio ad Ascoli Satriano), non è ancora scomparsa dai campi di pomodoro. «Si tratta prevalentemente di stranieri — prosegue Fabio Ciconte —. I loro ruolo è garantire il reclutamento e la logistica della forza lavoro, pretendendo per ogni intermediazione un pagamento che naturalmente incide sulle già magre paghe dei lavoratori». Secondo Altromercato, che ha scandagliato la filiera del pomodoro alla ricerca di casi di sfruttamento e diritti negati, in questo settore almeno la metà dei rapporti di lavoro è illecita. I lavoratori non regolari sono circa 400 mila, con un danno economico complessivo che supera i 3,5 miliardi di euro. Si va dal semplice illecito amministrativo alla violenza esercitata su una manodopera debole e ricattabile, spesso composta da migranti senza permesso di soggiorno. Storie di braccianti che ricordano quelle di cui già nel secondo dopoguerra parlava il sindacalista di Cerignola (Foggia) Giuseppe Di Vittorio. «Solo che una volta i lavoratori, pugliesi o calabresi, parlavano per lo meno la stessa lingua dei caporali, talvolta venivano dagli stessi paesi — ricorda Placido —. Negli anni Novanta, invece, abbiamo cominciato a vedere i primi emigrati, che qui accettavano i lavori che capitavano e che si sentivano davvero esclusi. E da allora non è cambiato nulla». Nelle campagne di Nardò (Lecce), il 20 luglio 2015 è morto un operaio sudanese, Abdullah Muhamed, 47 anni. Raccoglieva pomodorini, ricevendo 7 euro per ogni cassone riempito. Quel giorno la temperatura sfiorava i 42 gradi. Ad Abdullah, nonostante soffrisse di bronchite cronica, era stato consentito di lavorare. Senza mai visitarlo. Dopo qualche ora si è accasciato al suolo: è morto stroncato da un infarto. Il processo per caporalato e omicidio colposo a carico del proprietario del terreno, un imprenditore leccese, e il caporale sudanese, comincerà il 27 maggio a Lecce. Un’altra inchiesta dimostrerà che sempre a Nardò, durante i giorni di pioggia, alla richiesta di stivali della giusta misura necessari per poter lavorare nel fango, ai lavoratori era stato risposto: «Se vi vanno stretti, tagliate via la punta».
Nella baraccopoli di Cerignola
Chi lavora così, vive spesso in una delle tante baraccopoli sorte nelle campagne agricole. Come a Borgo Tre Titoli, 7 chilometri da Cerignola, da metà degli anni ’90 ribattezzato «ghetto Ghana». In questi giorni di inizio maggio si sta finendo la piantumazione del pomodoro. Un barbiere improvvisato rade un cliente sotto una tettoia, tra galline, polvere e trattori arrugginiti. Altri si riposano dopo una giornata di lavoro in una baracca trasformata in bar: una bottiglia di birra costa 40 centesimi. Sotto una lamiera sorretta da pezzi di legno conficcati nella terra battuta c’è lo scheletro di un divano nero riempito con vecchie gomme d’auto. «Ci dormo sopra», racconta Ahmed, 41 anni, del Niger, che per proteggersi dal freddo della notte si copre con una tela cerata imbottita di pelli. Mentre parla sta sistemando su dei vecchi mattoni una griglia di fortuna dove cuocerà una pecora comprata a pochi euro da un venditore di passaggio. I ruderi dei casolari costruiti ai tempi della riforma agraria fascista ospitano, qui, quasi 300 migranti (molti sono donne e bambini). Ma quando in piena estate il lavoro aumenta il loro numero triplica. Un aiuto è offerto da associazioni di volontariato. La Caritas, pochi giorni fa, ha inaugurato lì Casa Bakhita, un centro pastorale con chiesa, ambulatorio e sale per assistenza legale e attività scolastiche. «Là prendiamo l’acqua per lavarci, bere e cucinare», racconta Johnny, senegalese di 23 anni che sogna di studiare da geometra, indicando una cisterna riempita con le autobotti inviate dalla Regione. I servizi igienici mancano del tutto. Per sopravvivere, Johnny aspetta ogni giorno di essere reclutato alle 3 di mattina insieme agli altri braccianti (anche italiani) che riempiranno per 10 ore cassoni di pomodoro a meno di 30 euro. Di cui un quinto se li prenderà il caporale. Funziona così in molti ghetti: la Capitanata, Borgo Libertà, Cicerone, Orta Nova, Rignano. Oltre mille vivono anche nella baraccopoli sorta nell’aeroporto abbandonato a ridosso del Cara di Borgo Mezzanone, struttura d’accoglienza a una decina di chilometri da Foggia. Fra questi c’è Akin, 34 anni, nigeriano. «Fa freddo la notte», dice. «Non c’è riscaldamento né elettricità». Quando è arrivato, nel 2017, viveva nel ghetto di San Ferdinando, nella piana di Gioia Tauro. Lo stesso da cui veniva Soumayla Sacko, 29 anni, immigrato del Mali che collaborava con l’Usb per i diritti dei braccianti, ucciso il 2 giugno scorso con una fucilata alla tempia nel vibonese. Due mesi fa quella baraccopoli è stata fatta sgomberare dalle autorità e molti migranti sono stati spostati in una tendopoli attrezzata. Questo dopo che il 2 dicembre Surawa Jaiteh, 18 anni, venuto dal Gambia e titolare di permesso di soggiorno per motivi umanitari, era morto in un incendio che aveva distrutto la sua casa di plastica e legno. Stessa sorte toccata lì, il 27 gennaio 2018, alla nigeriana Becky Moses, 26 anni. Situazioni come questa esistono in altre zone del Meridione. Come a Vittoria (Ragusa). Uno dei più grandi poli ortofrutticoli europei, a 40 minuti dalle sterminate serre di pomodori Pachino. A combattere il sistema ci sono realtà come Libera che ha creato una rete di 1.600 associazioni, movimenti e cooperative. Molte impegnate a trasformare in risorse i beni confiscati alla criminalità. A Cerignola, terzo agro d’Italia dopo Roma e Ravenna, il suo baluardo è dal 1996 la cooperativa Pietra di scarto. «Aiutiamo ex carcerati o disoccupati a trovare un lavoro», racconta il presidente Pietro Fragasso. Dal 2010 gestisce 3 ettari confiscati alla mafia, prima usati come discarica, oggi coltivati a vigne, uliveti e 10 mila piante di pomodori delle varietà San Marzano Super Roma, giallo e ciliegino, distribuiti da Altromercato. Oggi Fragasso ha impiegato 3 persone che diventano 10 nella stagione della raccolta. Tutti con contratti in regola e salari equi. Entro l’estate Pietra di Scarto gestirà anche la trasformazione. «Così potremo chiudere la filiera».
I mercati ortofrutticoli
Ma ad avvelenare la coltivazione del pomodoro e l’agroalimentare tutto non è solo lo sfruttamento del lavoro: «I settori più redditizi dell’economia attirano gli interessi della criminalità organizzata», spiega Eugenia Pontassuglia, pm della Direzione nazionale antimafia: «Imprenditori legati alle famiglie mafiose che hanno sempre operato in determinati territori, con il loro appoggio riescono ad imporre regimi di assoluto monopolio». È il caso dei mercati ortofrutticoli, che in alcune città sono controllati dalla mafia attraverso imprese che operano per nome e conto dei clan. Negli ultimi 8 anni, tre diverse indagini hanno scoperchiato il sistema di intimidazioni e violenze che assicurava alle organizzazioni criminali (’ndrangheta prima, poi Casalesi e camorristi di Giugliano) il controllo del Mof, il mercato di Fondi (Latina), il più grande d’Italia. Nel 2018, le inchieste della magistratura hanno portato allo scioglimento del comune di Vittoria, a causa degli affari illeciti che coinvolgevano politica locale e commercio all’ingrosso di ortofrutta in uno dei distretti produttivi più importanti d’Italia, con oltre 3 mila aziende serricole. Anche in quel caso a tirare i fili era un clan della Stidda, la mafia della Sicilia meridionale. «Controllare il settore dei trasporti ortofrutticoli — spiega Francesco Gosciu, capocentro della Direzione investigativa antimafia di Roma — consegna alle organizzazioni criminali uno strumento formidabile: non solo per speculare su attività redditizie, ma anche utilizzare i camion per veicolare armi e droga».
I prezzi
La spirale negativa che alla raccolta del pomodoro associa il caporalato e la malavita è alimentata dalla competizione sul prezzo. «Il caporalato non è un fenomeno a sé stante ma è parte della filiera è come se per fare business coltivassimo schiavi», dice Fragasso. L’anno scorso il prezzo di un chilo di pomodori da salsa era stato fissato a 7,5 centesimi per il bacino del Nord e 8,7 centesimi (9,7 per la varietà lunga) per il Centro-Sud. «Cifre che possono al limite soddisfare i distretti meccanizzati della Pianura Padana, ma che non remunerano di certo la manodopera necessaria al Sud», spiega Lucio Cavazzoni, presidente di Goodland, associazione che si occupa di armonizzare l’impatto sociale dell’agricoltura e che sul pomodoro ha in corso un progetto con la Comunità di Emmaus, in Puglia. «Per garantire lavoro legale bisognerebbe triplicare questo prezzo, portarlo ad almeno 20-25 centesimi. E sarebbe comunque abbordabile per tutta la filiera, consumatore incluso. Ma finché nei discount si vedono barattoli di 500 grammi di passata a 40-50 centesimi significa che lo schiacciamento al ribasso continua a fare danni». Per non parlare delle aste che sono le vere sedi in cui si decidono i prezzi in barba a qualsiasi tipo di accordo: sono contrattazioni telematiche organizzate da alcune insegne della grande distribuzione qualche mese prima della raccolta per accaparrarsi milioni di barattoli al minor costo possibile. Un meccanismo simile al gioco d’azzardo che colpisce l’intera filiera l’ha definito il rapporto 2018 di Oxfam e Terra! Maturi per cambiare. Costringendo gli industriali a vendere sottocosto pur di non perdere la commessa e, a ruota, gli agricoltori a tagliare il costo del lavoro. «Così avere 400 mila persone che lavorano e vivono in condizioni di inciviltà — attacca Cavazzoni — diventa connaturato al sistema. Ma la raccolta del pomodoro è un lavoro che facciamo da migliaia di anni, potremmo organizzarlo in modo legale, invece consentiamo di farlo in maniera disumana». Ed è un problema, questo del giusto prezzo, che investe la produzione del cibo in tutto il mondo: basti pensare alle battaglie del latte francesi o all’azione di intellettuali americani come Michael Pollan, che hanno avviato un cambiamento globale. In Italia la Comunità di Emmaus, per esempio, ha ricevuto dalla regione Puglia 1.000 ettari di terreno e a settembre lancerà con Goodland il primo pomodoro etico. Oppure NoCap, rete anti-caporalato fondata dal ricercatore e attivista camerunense Yvan Sagnet: certifica il pomodoro buono secondo 10 parametri, dai contratti al rispetto per l’ambiente. «Il cambio di passo è urgente — dice Cavazzoni —. Anche perché se ci sono i caporali ci sono pure i generali. Che siamo tutti noi quando ci giriamo dall’altra parte per non guardare».
FONTE: Corriere.it